DOV’È LA NOVITÀ
Non è facile rispondere. Esiste senz’altro una forma di innovazione di processo nel trasformare un costoso bene di consumo (l’auto) in una fonte di profitto, introducendo oltretutto concorrenza in un settore tradizionalmente protetto e ultra-regolamentato. Immaginato su larga scala, questo processo ha anche il potenziale di trasformare i nostri stili di vita, in particolare il tradizionale rapporto che abbiamo con la proprietà e il modo in cui usiamo auto e strade. L’efficienza dell’uso dell’automobile potrebbe migliorare, vista l’attuale attitudine a portare un passeggero per volta quando se ne potrebbero portare tre o quattro. L’abbassamento dei prezzi potrebbe però anche condurre a una diversione degli utenti dal trasporto pubblico, portando a un aumento del numero di auto per strada. Purtroppo, il beneficio netto è difficile da stimare senza un modello in cui i due fattori vengono soppesati, e difficile è anche calcolare le esternalità ambientali.
Da un altro punto di vista, si potrebbe obiettare che anche nel processo c’è ben poco di nuovo, in quanto Uber costituirebbe solo una forma di franchising. In questo modello commerciale, una parte concede all’altra l’uso del proprio marchio e dei propri processi per produrre un bene o un servizio standardizzato. Si potrebbe dunque considerare Uber come franchisor e il guidatore come franchisee.
La domanda principale relativa agli elementi di innovazione apportati da Uber riguarda proprio il ruolo di Uber in quanto intermediario. Nella relazione fra Uber e i guidatori, chi è il capitalista? L’investimento è parzialmente sostenuto da Uber (la tecnologia) e – in misura maggiore – dai guidatori. A loro spettano infatti tutti i costi relativi alla vettura (acquisto o noleggio, manutenzione, carburante, assicurazione, eccetera). Inoltre, il guidatore non può decidere il prezzo del servizio, né negoziare la porzione di ricavo a lui spettante: sono decisioni prese unilateralmente da Uber.
La sharing economy offre vecchi servizi in un modo, per alcuni aspetti, innovativo. La novità risiede nel processo, ovvero nella capacità di mobilizzare capitale sottoutilizzato e creare una nuova divisione del lavoro utilizzando una tecnologia che permette un efficiente e immediato aggiustamento tra domanda e offerta. Ciò smuove le acque in settori tradizionalmente molto regolati e immuni dalla concorrenza e di conseguenza suscita grande interesse.
Tuttavia, lo fa al prezzo di un impatto sulle relazioni industriali e rompendo i tradizionali confini tra free-lance, lavoratori dipendenti e chi offre lo stesso servizio in modo amatoriale e solo occasionalmente. La rottura dei confini rischia di implicare una progressiva riduzione dei redditi (a causa delle paghe basse nel settore) e delle entrate fiscali (non è chiaro al momento chi paga quali tasse), a meno che i sistemi non vengano opportunamente ridisegnati per colmare i vuoti di oggi. Per queste ragioni, urge orientare l’agenda della ricerca sugli effetti distributivi di questi trend.
Uber non è infatti un caso isolato, e se è improbabile che la sharing economy sostituisca interamente le tradizionali forme di commercio dei servizi, è probabile che il suo ruolo nell’economia sia destinato a crescere, con importanti effetti sui nostri modelli socio-economici di riferimento.
Firmato MC ROTA